Dal mondo: E finalmente uscirono a riguardar le stelle
L’articolo è di Giuliano Crisalli
Sessantanove giorni laggiù, quasi al centro della terra. Soli, con la paura di non riuscire più a respirare l'aria che li ha tenuti sempre in vita, prigionieri a più di 600 metri di profondità nella miniera maledetta. Trentatre uomini che tutti, in superficie, volevano salvare, tirare su e abbracciare. Madri, padri, mogli, figli, fratelli, sorelle con le lacrime agli occhi e il cuore in subbuglio hanno atteso in silenzio che qualcuno togliesse da quell'inferno i loro cari. C'erano, sperando nel miracolo, centinaia di giornalisti, decine di telecamere e di microfoni e con loro, anzi grazie a loro, milioni di persone che spera-vano, si commuovevano, pronti con il pensiero a da-re una mano perché si risolvesse quella tragedia.
Si temeva, molti ne erano certi, che quei trentadue cileni e un boliviano sarebbero morti laggiù come accadde 1'8 agosto del 1956 ai 262 minatori di Marcinelle che prigionieri delle buie gallerie, bruciarono vivi folgorati da un corto circuito che in pochi secondi scatenò un incendio violentissimo. La maggioranza di quei disgraziati operai era italiana. Poveri disperati emigranti, che pur di vivere e far vivere le loro famiglie, erano scesi nelle viscere della terra per guadagnarsi il pane. Facce sporche, polvere, martelli, rumore assordante, caldo e freddo, paura. Perdettero la vita nel pozzo di Bois du Cazier a 1035 metri di profondità. Lasciarono sole 183 vedove e 387 orfani.
Oggi, 2010, qualcosa è cambiato. Ce ne siamo accorti, trattenendo il fiato, seguendo le trasmissioni televisive che ci hanno mostrato questi minatori a torso nudo, sudati, stretti gli uni agli altri, sorridenti. Loro, solo loro, infondevano speranza e sicurezza in chi, spaventato, li guardava. Tutti insieme sembravano voler infondere coraggio agli increduli che li osservavano attraverso il video.
Erano in tremila l'ultima notte della liberazione, assiepati, in silenzio, di fronte all'ingresso della miniera. C'erano freddo e vento e l'ultimo quarto di luna sotto il cielo terso nel deserto di Atacama.
Poi è apparsa la capsula Fenix 2, finalmente issata in piedi, con i colori della bandiera cilena, la grata per respirare e le ruote di scorrimento e poi quel minuscolo tombino (56 centimetri di diametro) simile a quelli di città, da dove sarebbe transitata la vita. Solo allora molti di noi hanno compreso che cosa significhi finire imbottigliati per dieci, quindici minuti scivolando nelle viscere della terra. Il Cile si è esaltato con ragione. Sono suoi gli uomini e gli specialisti che hanno portato a termine l'esaltante impresa. Quest'anno la nazione sudamericana che compie 200 anni di storia, ha appena avuto ragione di un terremoto con tsunami 178 volte più potente di Haiti e ne è uscita con "appena" 500 morti.
Oggi dimentica quelle vittime ed esulta per questi figli che sono tornati a respirare l'aria fresca dopo tanti giorni di "terribile prigionia". Il salvataggio è stato possibile, è bene ricordarlo, anche grazie a mezzi meccanici modernissimi e ad una eccezionale mobilitazione internazionale. Una delle due perforatrici che hanno bucato la roccia è stata costruita da una piccola industria della Pennsylvania; una delle grandi gru è stata messa insieme con parti metalliche cinesi; le comunicazioni tra soccorritori e minatori sono state facilitate da un cellulare con proiettore. Ai minatori sono state fornite calze fabbricate con fili di rame che sopprimono i batteri e allontanano le infezioni. La Nasa ha dato precise indicazioni sulle condizioni psicologiche dei cosmonauti e sul modo di evitare lo shock del ritorno alla vita normale.
Mentre lassù preparavano il salvataggio, laggiù tutto procedeva secondo un copione extraterrestre: in una galleria la latrina, in un'altra la "palestra" per tenersi in forma per l'ora X del salvataggio: un anfratto per i fumatori e una breve galleria dove a turno i minatori si ritiravano in solitudine per leggere i messaggi che arrivava-no insieme al cibo che mangiavano (poco) ogni 48 ore e alle medicine. Forse in quegli istanti le lacrime avranno rigato i loro volti ma fuori di lì, sorrisi ed evviva, foto di gruppo per farsi e fare coraggio.
Il primo a salire è stato il gruppo di minatori considerati dai compagni i più abili e resistenti. Hanno funzionato da cavie. Li hanno seguiti quelli con problemi di salute cronici e che hanno retto con fatica alla situazione, infine il gruppo dei minatori sani. L'ultimo ad essere tirato fuori è stato il capo turno del gruppo. Erano le 22 della notte (le 3 del mattino in Italia).
Beppe Giovine è un medico piemontese, speleologo da oltre vent'anni. E' sceso sino a mille metri di profondità più di una volta, anche in miniera. Racconta: "Questi minatori non scorderanno facilmente la terribile avventura. Sono diventati, però, molto amici tra di loro e questo li ha aiutati a vincere la paura e il buio aumentando loro la speranza di essere salvati. Bisogna anche considerare che questi uomini sono abituati a quel tipo di lavoro – tranne uno che ha solo 19 anni – e quindi dovrebbero riprendersi psicologicamente in un tempo ragionevole. Ognuno di noi, in circostanze simili, riuscirebbe con difficoltà a superare la tensione accumulata durante una prigionia così lunga".
Per un altro medico, Mario Raviolo membro della Sanità mondiale della medicina dei disastri e direttore della struttura di maxi emergenza del Piemonte, che ha partecipato a diverse missioni di soccorso, come nel caso del terre-moto di Haiti, i possibili problemi di salute dei muratori sono anche legati alle condizioni climatiche e ambientali vissute. A quei livelli – specifica – ci sono temperature dai 38 ai 40 gradi costanti che i trentatre lavoratori hanno sopportato per un lungo periodo. Da qui tutti i rischi della disidratazione e gli equilibri elettrolitici che possono ripercuotersi principalmente a livello cardiocircolatorio.
Particolare attenzione sarà riservata anche agli occhi con la necessità di un'educazione alla luce del sole. "Non bisogna dimenticare – conclude lo specialista che fino all'ultimo hanno vissuto l'incertezza delle propria sopravvivenza. La luce del sole avrà un impatto emotivo enorme sulla psiche". Dopo la tragedia sfiorata le autorità sono decise: la miniera di San Josè non può riaprire. "Cambieremo le norme. Faremo in modo che non si lavori più in condizioni così insicure e disumane", ha detto il presidente Pinera. Quello del 5 agosto è l'ultimo di vari incidenti avvenuti perché la miniera non era in regola con le norme di sicurezza. Il futuro della cava è incerto.
Potrebbe essere rilevata da un'altra società se venissero confermate le voci - smentite finora - della scoperta, durante gli scavi, di un enorme filone aurifero. A noi, poveri uomini, basterà ricordare le giornate intense vissute da trentatre uomini che, grazie al lavoro dei loro fratelli in superficie, sono riusciti a riguardare le stelle. •