Il metodo senza tempo

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Tratto dal <<Corriere della Sera>> del 17 febbraio 2014

 

 

L'euforia «da strappo» degli anni 50

 

Il dibattito. L’atteggiamento degli studiosi: meno filologia, più rispetto per l’unicità della pittura
L’articolo di Fancesca Bonazzoli è tratto dal <<Corriere della Sera>> del 17 febbraio 2014

È stato fra gli anni Cinquanta e Sessanta che la pratica di staccare gli affreschi dai muri ha conosciuto nel nostro Paese il picco di popolarità. Se ne faceva un uso disinvolto, non solo per motivi di tutela, ma addirittura con lo scopo di portare i dipinti alle mostre che, proprio in quegli anni, cominciavano a diventare il nuovo fenomeno di massa. D’altra parte nessuno, dagli storici dell'arte come Roberto Longhi ai funzionari delle Sovrintendenze, avvertiva disagio anche perché erano anni in cui la storia dell’arte si era appassionata alle «pratiche da orologiaio» e cioè considerava normale smontare pezzo per pezzo una pittura solo per andare a trovare la sinopia sottostante, come se la filologia fosse più importante del dipinto stesso.

Ma non c'è da stupirsi: anche il restauro ha la sua storia, come quella dell'arte e della critica, che si sovrappone alla vicenda delle stesse opere entrando a farne parte come un tutt’uno inestricabile. Un restauro, sia chiaro, è sempre un’espressione dello spirito del tempo e un aggiornamento nel gusto: per questo non c’è niente di più stupido della frase amata dai media «riportato all'antico splendore». Ed ecco perché la storia del restauro è bagaglio di conoscenza imprescindibile per qualsiasi restauratore.

Quella dello stacco dei dipinti murali comincia già nell’antica Roma quando, ci raccontano sia Vitruvio che Plinio il Vecchio, alcune pareti dipinte vennero trasportate da Sparta nel 59 a.C.
Col passare dei secoli, soprattutto quando si trattava di intervenire su un dipinto deteriorato, si preferiva demolire o scialbare; al massimo si tiravano via in modo sommario croste di intonaco, una pratica sbrigativa usata ancora come racconta Stendhal, nel palazzo dei Papi ad Avignone dove i soldati che lì alloggiavano tagliavano «le teste di Giotto» dagli affreschi trecenteschi per rivenderle. Ma dal XV secolo era già tornata in uso e ben diffusa anche la tecnica del trasporto a massello (cioè con una porzione di muro) e uno dei primi dei quali abbiamo notizia riguarda la Resurrezione di Piero della Francesca trasferita da una parete all’altra del palazzo comunale di Sansepolcro intorno al 1474.

La svolta avviene agli inizi del Settecento quando il ferrarese Antonio Contri mette a punto un metodo di strappo accurato: non più lo stacco dell’incrostatura della calce dipinta, ma l'estrazione del colore mediante la copertura del dipinto con una tela su cui veniva spalmata una colla e sopra applicata una tavola. Poi, quando la tela veniva staccata, portava con sé la pittura.

La tecnica ebbe un grande successo ma il suo facile impiego portò con sé i timori per trasporti eseguiti con leggerezza e incompetenza e soprattutto, in età napoleonica, legittimò la paura che gli strappi facilitassero le requisizioni. Ecco perché durante le soppressioni napoleoniche si preferì staccare gli affreschi dai conventi di Milano a massello (sarebbero stati più scomodi da far viaggiare fino a Parigi) e non su tela. E così che le due tecniche, a strappo e a massello, continuarono a convivere per tutto l’Ottocento.

E oggi? Dopo 1’«euforia da strappo» prevale un atteggiamento più prudente soprattutto perché si è tornati a considerare, secondo la sensibilità artigianale rinascimentale, la qualità materica di un dipinto. Se il retaggio del pensiero neoclassico aveva fatto considerare primario il disegno dell’opera, oggi si è tornati a vedere la materia come il tramite imprescindibile dell'immagine.

Ora siamo consapevoli del fatto che quando si fa ricorso ad uno strappo si perde l'irregolarità della superficie murale; la sua collocazione prospettica nella parete, magari dentro una nicchia; pezzi di architettura dipinta come è avvenuto per l'affresco di Sisto IV col Platina di Melozzo da Forlì. Su un altro supporto si perdono la trasparenza e la tonalità data dallo spessore della calce, nonché la luce e le variazioni climatiche della collocazione murale.
Insomma, come scriveva Alessandro Conti nella sua Storia del restauro e della conservazione delle opere d'arte, ora siamo tornati più attenti al fatto che «L’unicità della pittura nasce dall'intento momentaneo ed irripetibile dell'artista non meno che dai materiali che ha usato e dal tempo che li ha alterati rendendoli ulteriormente irriproducibili».